
L’hanno chiamata operazione ‘Saman 2’ la delicata indagine dei carabinieri di Rimini, coordinata dal sostituto procuratore Davide Ercolani, che ha portato alla liberazione di una 20enne costretta con la violenza a sposare in Bangladesh un uomo più adulto.
Forse proprio il caso di Saman Abbas, giovane pakistana uccisa dalla famiglia nel 2021, le era stato di insegnamento per trasformare la sua storia in una di resilienza e libertà femminile. Alla fine infatti i genitori sono stati arrestati dai militari del nucleo investigativo guidati dal colonnello Roland Peluso, che hanno dato esecuzione martedì sera all’ordinanza di custodia cautelare, del gip, Raffaele Deflorio, di arresti domiciliari per la madre, 42 anni, e il padre, 55, entrambi cittadini bengalesi residenti a Rimini.
I reati contestati dal pm, sono di maltrattamento in famiglia e costrizione e induzione al matrimonio commessi all’estero per cui il provvedimento restrittivo è stato disposto su richiesta della procura della Repubblica di Rimini con istanza di procedimento del ministro della Giustizia, Carlo Nordio.
La giovane arrivata in Italia all’età di 7 anni, nel dicembre del 2024 era stata costretta con una scusa a un viaggio in Bangladesh dove le avevano, invece, combinato l’appuntamento con l’uomo, di 10 anni più grande, che sarebbe dovuto diventare suo marito. Innamorata di un 23enne connazionale residente a Forlì, la ragazza si era più volte rifiutata, ma una volta giunta a Dacca, i parenti le avevano sottratto i documenti e la carta di credito.
“Se non ti sposi, mi suicido”, le diceva il padre che poi suggeriva alla madre di legarla al letto e romperle braccia e gambe per non farla scappare. “Sei una poco di buono, ci stai rovinando”, le urlava la mamma. I parenti, zii e cugini, avevano poi contribuito a creare sulla giovane una pressione emotiva enorme.
Costantemente controllata, minacciata e percossa, alla fine si era piegata al matrimonio combinato. Costretta ad assumere farmaci per dormire e stare calma, ma anche per favorire la gravidanza, lei era riuscita a non restare incinta prendendo di nascosto la pillola anticoncezionale. Grazie ad un’amica si era poi messa in contatto telefonicamente con il consultorio del dipartimento salute donna di Rimini e con una volontaria di un centro anti violenza.
Alla volontaria dall’altra parte del mondo, aveva iniziato a raccontare con messaggi quello che le stavano facendo e documentando tutto con foto. “Voglio tornare in Italia. Se resto qui mi uccidono”, diceva.
Sono stati mesi delicati e difficili, durante i quali grazie all’interessamento della rete dei volontari, dei carabinieri e della procura si è tentato di salvaguardare la salute della ragazza per creare le condizioni del rientro a Rimini.
Una possibilità si era palesata, quando tre mesi dopo il matrimonio, viste le difficoltà di rimanere incinta della figlia, i genitori avevano acconsentito di tornare per un po’ in Italia. E così, quando la famiglia è atterrata all’aeroporto di Bologna ad aprile scorso, la ragazza è stata immediatamente presa in carico dai carabinieri e portata in una località segreta.
All’arresto dei genitori si è arrivati solo martedì sera perché i reati più gravi erano stati commessi all’estero. Il pm ne aveva chiesto l’arresto e la detenzione in carcere il 27 maggio scorso, il gip però aveva potuto emettere solo un’ordinanza di divieto di avvicinamento alla parte offesa con braccialetto elettronico, dopodiché la procura aveva chiesto al ministro della Giustizia di poter procedere nei confronti degli indagati per cui martedì sera i due genitori, rintracciati nell’abitazione di residenza, sono stati sottoposti agli arresti domiciliari, a disposizione dell’autorità giudiziaria. Sono difesi dall’avvocata Valentina Vulpinari.
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